L'Uomo e il Cibo
L’uomo soddisfa l’universale biologico della nutrizione in modo non
dissimile dagli altri mammiferi. Nella ricerca come nella selezione, nella
preparazione come nel consumo dei cibi, egli attiva un’attrezzatura sensoriale
capace di regolare il rapporto tra l’interno e l’esterno del corpo, adattandolo
ai ritmi fisiologici e stagionali, facendo leva su apparati percettivi
(olfatto, gusto, tatto) condivisi con il resto del mondo animale. Soltanto
l’uomo possiede però quel dispositivo simbolico che lo obbliga a trasformare i
cibi in cose “ buone da pensare ” oltre che da mangiare. L’uomo è cioè qualche
cosa di più di ciò che mangia, dal momento che dà ai cibi forma e valore.
Di questo carattere bi-planare dei cibi il pane è senza dubbio, nelle
culture cerealicole europee, il prodotto più emblematico: alimento quotidiano
ma anche segno, come testimonia il fatto che in molti luoghi non lo si possa
rovesciare sulla tavola (sarebbe come mettere a testa in giù una persona) o
come testimoniano le variazioni che ai pani festivi fanno subire le massaie
soprattutto nella forma e nella decorazione. A questo propositL’uomo soddisfa l’universale biologico della nutrizione in modo non dissimile dagli altri mammiferi. Nella ricerca come nella selezione, nella preparazione come nel consumo dei cibi, egli attiva un’attrezzatura sensoriale capace di regolare il rapporto tra l’interno e l’esterno del corpo, adattandolo ai ritmi fisiologici e stagionali, facendo leva su apparati percettivi (olfatto, gusto, tatto) condivisi con il resto del mondo animale. Soltanto l’uomo possiede però quel dispositivo simbolico che lo obbliga a trasformare i cibi in cose “ buone da pensare ” oltre che da mangiare. L’uomo è cioè qualche cosa di più di ciò che mangia, dal momento che dà ai cibi forma e valore.
Di questo carattere bi-planare dei cibi il pane è senza dubbio, nelle culture cerealicole europee, il prodotto più emblematico: alimento quotidiano ma anche segno, come testimonia il fatto che in molti luoghi non lo si possa rovesciare sulla tavola (sarebbe come mettere a testa in giù una persona) o come testimoniano le variazioni che ai pani festivi fanno subire le massaie soprattutto nella forma e nella decorazione. A questo
o, i pani sardi, quelli pasquali in Sicilia o quelli di San Giuseppe in Puglia costituiscono in Italia un repertorio tra i più significativi.
o, i pani sardi, quelli pasquali in Sicilia o quelli di San Giuseppe in Puglia costituiscono in Italia un repertorio tra i più significativi.
I fatti alimentari sono, in altri termini, parte integrante di
quell’universo simbolico che non soltanto ci fa unici tra gli altri animali, ma
è anche all’origine della varietà culturale che ci caratterizza come specie.
Ciascun gruppo etnico definisce la propria identità in rapporto ai cibi che
costituiscono la sua base alimentare primaria (nelle culture mediterranee,
dunque, i prodotti del grano), ma anche in rapporto a cibi speciali che
ribadiscono i rapporti sociali e i ritmi del vivere quotidiano interrompendoli
periodicamente in modo rituale. In quest’ultimo caso, si tratta essenzialmente
di cibi cerimoniali poveri o, al contrario, particolarmente elaborati e
abbondanti fino allo spreco, oppure di modalità di consumo inusuali, tra cui
forme complesse di digiuno e persino di astensione. Segni tangibili di
diversità culturale, che si esprime primariamente a livello delle qualità
sensibili – la percezione visiva, i profumi, i sapori – i sistemi alimentari
costituiscono altrettante frontiere tra le diverse epoche storiche, un criterio
utile a distinguere le comunità che vivono di caccia e raccolta da quelle che
praticano l’agricoltura, tra pitta e campagna, tra gruppi sociali. La stessa
separazione (ma anche il rapporto) tra il mondo dei vivi e quello dei morti è
quasi sempre garantito dalla circolazione di cibi: quelli consumati nei giorni
del lutto, quelli offerti periodicamente dai vivi o deposti nelle tombe per
accompagnare il viaggio dei morti, ma anche i cibi donati da questi ultimi ai
vivi, soprattutto ai bambini.
Da un altro punto di vista i cibi invece accomunano più di quanto non
separino. Se è vero infatti che essi riflettono modi di essere originali e
identificanti dei vari gruppi umani, sottolineandone la dipendenza dalla
varietà degli ambienti geografici e dalla diversità delle materie prime, è vero
anche che soprattutto la loro preparazione mostra dovunque e in ogni tempo
l’azione delle stesse regole logiche. Un esempio emblematico è rappresentato
dai menu. A dispetto delle diverse tradizioni nazionali, essi si fondano tutti
sulla combinazione di un duplice asse: orizzontale (in Italia, per esempio, la
scelta all’interno dei primi piatti e dei secondi con l’aggiunta dei contorni)
e verticale (la successione delle pietanze); altri possibili esempi sono quelli
della opposizione dolce/salato o del piatto unico: benché diano luogo nelle
diverse culture alle combinazioni più varie, quest’opposizione e questa
modalità di consumo marcano in modo riconoscibile tutti i sistemi culinari; la
grande varietà delle preparazioni carnee può essere infine ricondotta, da un
punto di vista logico, soltanto a tre categorie universali: crudo, cotto,
putrido, cui corrispondono le tre modalità di cottura più diffuse: l’arrosto,
l’affumicato (sostituito in alcune culture dall’essiccato), il bollito. Ad esse
è possibile aggiungere soltanto due altre modalità: la frittura e la
marinatura, che risultano rispettivamente dall’uso di grassi (vegetali come
l’olio o animali come il burro) o di acidi (come il limone o l’aceto).
È dall’analisi del rapporto tra queste categorie universali e la
dimensione locale del cibo che gli uomini potranno imparare non soltanto a
riconoscere, nello spazio come nel tempo, la diversità alimentare, ma anche a
rispettarla e persino ad integrarla nel proprio orizzonte culturale.
Dalla preistoria all'età del ferro
Cibo e alimentazione fanno parte di quegli
argomenti che sembrano fatti apposta per suscitare polemiche e opinioni
“fondamentaliste”. Per alcuni vegetariani e “salutisti” non vi sarebbero dubbi:
l’uomo sarebbe nato erbivoro, e tale dovrebbe restare, mentre per altri l’uomo
fu sempre un carnivoro determinato e spesso feroce, e ciò giustificherebbe
pienamente il consumo di massa di carni bovine, suine e pollame che si fa nei
paesi industrializzati. Entrambi i punti di vista sono eccessivi, e non hanno
alcuna base scientifica. Se qualcuno di voi ha mai osservato la dentatura di un
maiale, avrà notato come molti dei denti di questa creatura hanno una
somiglianza generica ma incontestabile con i nostri. La cosa potrebbe non
piacerci, ma in realtà con il maiale condividiamo la capacità di mangiare
letteralmente di tutto. Gli ominidi (i nostri più lontani “cugini ed antenati”)
si diffusero con rapidità, forse a più ondate, dall’Africa a tutto il resto del
pianeta, e sotto ogni genere di clima estremo, proprio ed esclusivamente grazie
ad un’estrema adattabilità alimentare.
Il Paleolitico (Età della
caccia e della raccolta)
In Italia, i più antichi depositi lasciati da Homo si trovano in
provincia di Forlì, in Lazio, in Basilicata e nel grande sito di Isernia La Pineta, in Molise, e si datano tra 800,000 e 650,000 anni fa. Ritrovamenti più
antichi in Spagna e Georgia fanno ritenere che probabilmente, in futuro, saranno
ritrovati resti fossili ancora più antichi. In passato, gli scienziati come i
libri di testo avevano diffuso l’idea che i nostri antenati della preistoria
fossero cacciatori abilissimi e coraggiosi, capaci di affrontare con armi
rudimentali animali aggressivi e di grande mole. Forse le cose non andarono
proprio così. Oggi molti pensano che Homo (l’ominide vissuto tra Africa, Europa
e Asia tra 2 milioni e 200,000 anni fa circa) fosse un grande opportunista,
esperto nella raccolta di ogni genere di radici, frutti, bacche e tuberi, di
uova, di invertebrati e in genere di piccoli animali facili da catturare tra
cui molluschi, tartarughe e piccoli mammiferi. Poichè queste fonti di cibo, su
archi di tempo tanto lungo, non lasciano in genere tracce durature, gli
archeologi debbono basarsi su ipotesi e congetture.
Sembra invece certo che Homo sia stato in primo luogo un intelligente
scarnificatore di carogne di animali morti per cause naturali (ferite,
malattie, aggressioni da parte di grandi carnivori). Se questo fosse vero, i
più antichi strumenti in pietra scheggiata sarebbero coltelli e seghetti da
macellaio piuttosto che armi usate per abbattere gli animali. Alcuni pensano
che proprio contendendo le carogne a leoni, orsi e altri grandi predatori Homo
abbia messo in atto le prime forme di caccia organizzata. Altri hanno
sottolineato come solo mani armate di blocchi di pietra e schegge acuminate
erano in grado di spezzare le ossa lunghe dei grandi mammiferi, e di estrarne
il midollo (una delle sostanze dal tenore nutritivo più elevato). Solo le iene,
tra i grandi predatori di carogne, avevano le mascelle tanto potenti da fare
altrettanto; e con le iene i nostri “cugini e antenati” dovettero certamente
vedersela per centinaia di migliaia di anni.
La capacità di padroneggiare pienamente il fuoco, e
quindi di incendiare savane e foreste - arma davvero “definitiva” nei confronti
di ogni genere di contendente - ma anche di cuocere cibi di diverso genere
sembra risalire a 500,000-400,000 anni fa (anche le prove certe sono molto
posteriori). La caccia regolare e sistematica a mammiferi di piccola e media
taglia sembra essersi definitivamente affermata più o meno a partire dalla
stessa soglia cronologica. Homo era ormai diventato un esperto cacciatore di
elefanti e altri grossi animali (rinoceronti, renne, cavalli), catturati con
trappole e abbattuti con lance di legno appuntito; gli animali abbattuti erano
macellati sul posto, mentre le parti più ricche (zampe, scapole, teste) erano
portate agli accampamenti stabili per essere condivisi col resto del gruppo. A
partire da circa 150,000 anni fa, l’uomo di Neanderthal (un nostro misterioso
cugino estintosi circa 40,000 anni fa) viveva in bande di cacciatori nomadici
di bovidi, mammut, cavalli, renne e orsi che, a giudicare dalla dentatura,
mangiavano grandi quantità di carne; in Asia centrale, i Neandertaliani
cacciarono soprattutto pecore e capre selvatiche, tallonando le greggi e
giungendo così a conoscerne intimamente le abitudini. Tutto ciò, alla lunga,
avrebbe contribuito a gettare le basi della domesticazione di questi
preziosissimi animali. Ai Neandertaliani sono anche attribuite pratiche di
cannibalismo, anche se non sappiamo ancora se queste fossero dettate da
necessità e consuetudine, oppure avessero natura rituale.
Le ragioni e i modi dell’uscita dall’Africa
nord-orientale di Homo sapiens, l’uomo anatomicamente moderno che ci è diretto
progenitore, e della rapida scomparsa dei Neandertaliani sono ancora un enigma.
Comunque siano andate le cose, soltanto il fuoco, una perenne fame e una
estrema spregiudicatezza alimentare permisero a Homo sapiens, negli ultimi
100,000 anni, di compiere imprese come l’attraversamento dello stretto di
Bering e la rapida conquista del continente nord-Americano; mentre sul versante
sud-orientale, nello stesso arco di tempo gruppi emigrati dall’Asia
sud-orientale erano ormai impegnati nella conquista della Melanesia e
dell’Australia. Nell’America del nord, i cacciatori paleoasiatici si trovarono
di fronte a una fauna ricchissima e praticamente indifesa (tra cui elefanti,
cavalli, bisonti, cervidi, camelidi) che sarebbe stata sterminata in
20,000-30,000 anni; in Australia, dopo aver eliminato con il fuoco rettili
simili a varani e lunghi sino a 6 m, i cacciatori ripeterono sulla fauna locale
lo stesso massacro.
In Europa e in Asia, i tempi del Paleolitico
Superiore (circa 40,000-14,000 anni fa) furono testimoni di cacce altrettanto
ricche ad elefanti, rinoceronti, renne e cavalli, come si vede non solamente
dalle stazioni di caccia e macellazione e dai villaggi temporanei delle bande,
ma anche dalle raffigurazioni policrome delle famosissime grotte dipinte della
Francia e dei Pirenei, e dall’arte su osso e avorio. La caccia ai grandi
mammiferi, durante la fine dell’ultima era glaciale, era integrata
dall’uccellagione, dalla pesca d’acqua dolce (trote, salmoni e storioni) e,
lungo le coste, alla caccia ad altre creature marine. La comparsa dei primi
mortai e pestelli testimonia che si intensificavano anche la raccolta e la
rielaborazione di semi ed altre risorse vegetali, che il miglioramento graduale
del clima rendeva maggiormente disponibili. A questo proposito, lo studio delle
attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori superstiti indica che in tempi
moderni e attuali la loro dieta si basava per il 70% circa dalla raccolta di
piante e dal reperimento di altre risorse commestibili, piuttosto che dalla
caccia; ma non è del tutto chiaro se tale condizione non dipenda in realtà dal
forte impoverimento ecologico generale, e dal fatto che esse sono state
sospinte dal nostro sviluppo nelle zone meno ricche e più inospitali del
pianeta. Semi, tuberi e radici, ma anche carni e ossa di pesce potevano essere
ridotte in farine e pappe simili a polenta, conservate per qualche tempo e
consumate crude o cotte. Oltre all’affumicamento e all’arrostimento delle carni
in fosse colma di braci, tradizionale tecnica di cottura dei cacciatori in ogni
latitudine, i cacciatori potevano praticare la bollitura, entro contenitori di
corteccia, sacche di tessuto animale ed entro i primi contenitori ceramici (i
più antichi esempi di produzione ceramica in Eurasia e risalgono al periodo tra
23,000 e 15,000 anni a.C). Olii di pesce e altri grassi animali potevano essere
estratti e anch’essi conservati e redistribuiti. La raccolta del miele
selvatico forniva un’ulteriore preziosa sostanza dall’elevato potere calorico.
C’è chi sostiene - sulla base della statura media
elevata e della robustezza degli scheletri nelle poche sepolture giunte sino a
noi, come della buona condizione dell’apparato scheletrico e dei denti - che il
modo di vita delle popolazioni di cacciatori del Paleolitico Superiore fosse
invidiabile proprio grazie alla grande disponibilità di carne e proteine.
Tuttavia, questo ipotetico “paradiso preistorico” non sarebbe durato a lungo.
Circa 13,000 anni fa, infatti, il cima iniziò a mutare sensibilmente,
diventando, in Europa occidentale e nella nostra penisola, sempre più caldo e
umido. Il ritiro dei ghiacciai comportò la graduale scomparsa delle grande
pianure erbose che avevano alimentato cavalli, renne e le altre grandi prede
dei cacciatori del Paleolitico. A questo mutamento forse si aggiunsero i
disastrosi effetti cumulativi della grande stagione precedente di cacce
indiscriminate.
Il Mesolitico
In questo periodo, detto Mesolitico, i nostri predecessori dovettero
rinunciare ai modi di vita basati sull’inseguimento nomadico delle grandi
mandrie, e, mentre i paesaggi lentamente si coprivano di foreste di latifoglie,
dovettero imparare a mangiare un po’ di tutto: alla caccia di mammiferi di
media e piccola taglia (daini, cervi, stambecchi), caprioli e cinghiali) si
aggiunsero la raccolta sistematica di piccoli animali di ogni genere (roditori,
uccelli) la raccolta dei molluschi terrestri, d’acqua dolce e marini, e la pesca,
di svariate specie vegetali che con appositi accorgimenti divennero
commestibili. Il ruolo dei cacciatori maschi fu sminuito, ma aumentò il senso
di solidarietà di gruppo, in quanto in queste mutate condizioni donne, bambini,
anziani e persino individui portatori di handicap potevano dare un contributo
utile al sostentamento della banda o della tribù. Intensificando il controllo e
lo sfruttamento dei propri territori, diversificando le diete - e certo
ampliando oltremodo le vecchie conoscenze culinarie - le genti del Mesolitico
cercavano di mettersi al riparo dai pericoli di stagioni e annate di scarsità
nelle singole risorse.
In Italia meridionale, gruppi Mesolitici praticavano la raccolta del
corbezzolo, delle leguminose selvatiche, della ghianda, dell’uva selvatica e
dell’oliva dell’oleastro selvatico; in Italia settentrionale, molti siti
testimoniano uno sfruttamento intensificato della nocciola. Fu in questo periodo che nacquero i presupposti della domesticazione
delle piante e degli animali e furono compiuti i primi esperimenti in tal
senso. Riducendo la portata del nomadismo, e collocando i primi villaggi in
punti strategici da cui fosse possibile controllare con maggiore efficienza le
zone da cui si estraevano risorse diverse, fu possibile approfondire la
conoscenza dei comportamenti e delle potenzialità delle specie di piante e
animali più utili e ricercate. Mentre in America e in Australia le specie
potenzialmente utili erano state completamente estinte, in Eurasia erano
sopravvissuti animali selvatici che avrebbero mutato per sempre la storia del
mondo.
Il Neolitico (L’età della
domesticazione delle piante e degli animali)
Secondo la teoria più accreditata, la grande rivoluzione economica e
alimentare che gli archeologi associano al periodo Neolitico prese piede
dapprima nelle regioni del Levante (Anatolia
sud-orientale-Siria-Israele-Palestina), dove i cacciatori, dopo infruttuosi
tentativi di addomesticare la gazzella, portarono a compimento prima la domesticazione del maiale, poi quella della capra, della pecora e dei
bovini, quasi contemporaneamente, tramite un processo di selezione graduale e
forse largamente inconscio, si ottennero le prime forme di orzo e grano domestico, di lenticchie e piselli. Se per i cacciatori
molti figli sono un problema - molte bocche da sfamare - per gli agricoltori
preistorici si trattava di nuove braccia per dissodare, arare, seminare e
raccogliere. La diffusione dell’agricoltura comportò un forte e costante
aumento demografico, e la crescita di villaggi permanenti sempre più allargati.
Il prezzo da pagare furono nuove malattie, prese dagli animali addomesticati e
facilmente trasmesse nelle pessime condizioni igeniche dei primi centri
sedentarizzati, e, in generale, un forte scadimento dello stato di salute
generale. La diffusione dell’agricoltura, infatti, comportò ovunque, ad
esempio, una sensibile riduzione dimensionale dei denti, mentre le diete basate
principalmente sui cereali aumentarono immediatamente i casi di carie.
Anche se nulla sappiamo sugli albori della tecnologia del sale, essa doveva già essere largamente sviluppata in periodo Neolitico. Alla
possibilità di salare conservare le carni di maiale si aggiunsero le tecniche
di immagazzinamento e conservazione di cereali e legumi, nonché la capacità di
preparare e conservare formaggi. Il controllo della fermentazione dei cereali fu alla base della
tecnologia di produzione di bevande inebrianti.
La vite e la tecnologia di vinificazione iniziarono ben presto la propria
“lunga marcia” da est verso ovest. Nel sito Neolitico di Haji Firuz, in Iran
(circa 6000-5000 aC), gli archeologi rinvennero in una cucina domestica, 6
giare parzialmente interrate, una delle quali conteneva un deposito
concrezionato giallastro. In questo sedimento furono identificati residui di
acido tartarico e resina di terebinto: è la prova dell’uso di resine vegetali
come conservanti per il vino. Insieme alla possibilità di ottenere lana, tutto
ciò permise la trasformazione delle economie dei primi villaggi sedentari
produzioni primarie (di sussistenza) a produzioni secondarie o derivate
(passibili di immagazzinamento e scambio).
In brevissimo tempo (dall’11° all’8° millennio a.C.)
l’insieme di queste poche specie addomesticate nel Vicino Oriente sembra
essersi diffuso a velocità costante verso occidente, portando con sè le
potenzialità di un’economia agricola nuova e efficiente, facilmente adattabile
alle locali variazioni ecologiche, e determinando ovunque una generalizzata
crescita demografica. Nel sud e nel centro della nostra penisola, il passaggio
ad economie agricole è testimoniato dalla presenza nei siti più antichi del
Neolitico di resti di farro, farro piccolo e frumento duro, di varie specie di
orzo e leguminose (tra cui lenticchie, fava, veccia e pisello). Corbezzolo,
nocciolo, ulivo, fico e vite, anche se allo stato selvatico, furono oggetto di
cure intensive e esperimenti intensificati. Nel nord, vari tipi di frumento, farro
e orzo risultano sempre associate al nocciolo. Si praticava la torrefazione di
semi, ponendoli a cuocere entro vasi sigillati o accostati per la bocca. Nei
siti palafitticoli dell’arco alpino sono documentati i resti di almeno 150
specie vegetali, sia coltivate sia selvatiche: vi figurano carote, senape,
cavolo, valeriana, lattuga, tiglio; sono stati rinvenuti pani non lievitati o
gallette di grano, miglio, orzo, a volte ricoperti di semi di papavero. Gli
stessi siti testimoniano la pratica dell’immagazzinamento di grandi quantità di
semi entro contenitori ceramici di grande capacità. Ammassi di bacche e frutta
trovati entro grandi vasi testimoniano forse la produzione di succhi
fermentati.
Il cane era usato come compagno dell’uomo e
collaboratore nella caccia sin dal Mesolitico; l’animale deve aver avuto
crescenti opportunità di impiego in ambito pastorale, e sono noti casi
sporadici di consumo di carne di cane fino all’età del Bronzo (2° millennio
a.C). Pecore, capre e bovini sembrano essere stati introdotti e ampiamente
adottati in Europa dapprima come produttori di carne, poi per altri fini. Così,
le prime pecore introdotte nella penisola non sembrano essere state adatte e
selezionate per la produzione della lana; da esse, secondo alcuni, discenderebbero
i mufloni selvatici della Sardegna e della Corsica. I primi casi accertati di
uso dei bovini per trazione agricola risalgono al 3° millennio a.C (incisioni
rupestri di Monte Bego, Francia). La produzione di costosi tessuti in lana,
come testimoniato dal trono di Verucchio sarebbe in seguito assurta a elemento
di esibizione e vanto presso le aristocrazie della prima metà del 1° millennio
a.C. Tra 5° e 2° millennio a.C., tra il Neolitico e il Bronzo antico, la
presenza di vasi ceramici a struttura complessa, con pareti perforate e
diaframmi interni è stata riferita allo sviluppo delle tecnologie di
trattamento del latte e produzione caseari.
Se gli agricoltori Neolitici avevano gettato le basi
del sistema rurale della penisola, esso si arricchì sensibilmente durante l’età
del Rame (3° millennio a.C), quando furono gradualmente adottate e adattate le colture della vite, del fico, del ciliegio,
del susino, del pruno e del castagno. Tra le età del Bronzo e del Ferro furono
inoltre inseriti spelta, segale, avena, miglio, panico, veccia e ceci, a
seconda delle particolari condizioni ecologiche di ogni regione o
micro-regione. Miele, fichi, bacche e frutta secca permisero lo sviluppo di una
industria dolciaria sempre più variata. Tra gli ultimi secoli dell’età del Bronzo e i primi
momenti dell’età del Ferro (11°-9° secolo aC), l’uso del vino si diffuse presso
i gruppi aristocratici della penisola Italiana. Con l’estensione della coltura
della vite e il perfezionamento della coltura
dell’olivo si portò a compimento quella che fu chiamata “la
conquista delle colline”; la messa a coltura, cioé, mediante terrazzamenti e a
volte piccoli sistemi di irrigazione, dei fianchi delle alture stesse che
ospitavano i centri fortificati degli stati tribali arcaici della penisola, con
coltivazioni che richiedevano significativi investimenti lavorativi per
l’impianto e la manutenzione ma garantivano redditi elevati e soprattutto una
produzione altamente prestigiosa di vino e olio, entrambi indispensabili per i
rituali e i simposi nel corso dei quali era riaffermato la status
aristocratico. Fianchi collinari e piane vallive furono finalmente integrati e
mantenuti in efficIenza all’interno degli stessi “paesaggi di potere”.
Analogamente, lo sviluppo dell’agricoltura e
dell’allevamento comportarono anche una graduale contrazione dell’importanza
economica della caccia, che rimase tuttavia importante negli ambienti
periferici e pedemontani (cervo, capriolo, cinghiale), finendo col
trasformarsi, nelle fasi più tarde, in una attività prestigiosa, legata alla
rappresentazione del ruolo sociale delle élites preromane. Infine, va
menzionata la gallina: si trattava in origine di una piccola folaga selvatica
originaria del Subcontinente Indo-Pakistano, localmente addomesticata tra 4° e
3° millennio a.C., e quindi gradualmente diffusa sui navigli commerciali dalle
coste del Golfo Persico verso l’Egitto e oltre. Già apprezzato presso le città
della Magna Grecia per la carne e le uova, il pollame si diffuse nella penisola
Italiana nel corso dell’età del Ferro; tuttavia solo in età Romana, e con molte
resistenze culturali, si trasformò nel fenomeno di consumo di massa che perdura
tutt’oggi.
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